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Improntitudine della fotografia: la storia dell’architettura scritta con la luce da Fabio Mariano

15' di lettura

Nuovo appuntamento con la rubrica "Le storie dell'arte", curata dal Prof. Francesco Maria Orsolini.

L’architettura, dal rinascimento all’età contemporanea, e la fotografia hanno un’intima familiarità, perché entrambe condividono la parentela con la prospettiva, a sua volta congiunta dello specchio. Infatti, è mettendo insieme lo specchio con la prospettiva che l’architetto e scultore Filippo Brunelleschi, primo tra i novatori rinascimentali, mise in pratica i principi riscoperti sugli antichi testi di geometria e di ottica, sperimentando l’immagine prospettica per mezzo di un marchingegno che illustra, meglio di tante argomentazioni teoriche, il nesso strettissimo tra la prospettiva, lo specchio e la verità ottica, alla base della fotografia.

Brunelleschi realizzò nel 1413, secondo la testimonianza del suo biografo Antonio Manetti, un dispositivo che oggi potremmo definire a “realtà aumentata”. Si trattava di una tavoletta dipinta, raffigurante l’immagine prospettica del fiorentino battistero di San Giovanni, che il riguardante, tenendola con il lato posteriore rivolto verso il proprio occhio, poteva osservare attraverso un foro centrale della tavoletta medesima, riflessa su uno specchio posto frontalmente all’immagine dipinta e tenuto con l’altra mano (osservate l’illustrazione e tutto vi sarà chiaro).

Filippo Brunelleschi, dispositivo per l’osservazione dell’immagine prospettica del Battistero e della Piazza di S. Giovanni, Firenze

Filippo Brunelleschi, dispositivo per l’osservazione dell’immagine prospettica del Battistero e della Piazza di S. Giovanni, Firenze

Collocandosi in un punto preciso della piazza del Duomo, scrupolosamente calcolato e individuato da Brunelleschi all’ingresso del portale centrale della Cattedrale di S. Maria del Fiore, il riguardante avrebbe potuto verificare la perfetta interscambiabilità tra l’immagine prospettica del Battistero e quella ottica reale, con la semplice operazione del porre e togliere lo specchio di fronte alla tavoletta dipinta. L’identità funzionale tra immagine ottica naturale e quella artificiale-prospettica era inoltre esaltata attraverso le lamine d’argento collocate da Brunelleschi agli angoli superiori della tavoletta, sulle quali si riflettevano il cielo e le nuvole visibili oltre gli spioventi della copertura del Battistero, osservabili ai lati del monumento dipinto.

Solo apparentemente in contraddizione con la riscoperta dell’antico e della tradizione classica, la ricerca delle verità ottica, che trovò nella scienza prospettica il principale strumento teorico e operativo, fu uno dei contenuti culturali più innovativi del Rinascimento, non solo nell’arte, ma nel modo stesso di pensare la realtà, associata ad un “punto di vista” che la rende osservabile, rappresentabile, conoscibile, nonché misurabile. La prospettiva produceva un potente “effetto di realtà” sull’osservatore, che poteva identificarsi e immedesimarsi con il punto di vista in funzione del quale il pittore aveva costruito l’immagine dello spazio, come se lui stesso ne fosse entrato a far parte, come se vedesse la scena riflessa da uno specchio, compresente e quindi come se fosse testimone di ciò che vedeva.

Jan van Eick, Ritratto dei coniugi Arnolfini, 1434, Londra, National Gallery

Jan van Eick, Ritratto dei coniugi Arnolfini, 1434, Londra, National Gallery

L’associazione tra l’immagine dipinta e quella speculare che autentifica l’artista come testimone di quanto raffigurato, di conseguenza obbligando l’osservatore a ritenere vera l’immagine che ha di fronte ai suoi occhi, è stata magistralmente rappresentata da uno dei più straordinari pittori rinascimentali, l’olandese Jan van Eick, nel suo dipinto più famoso, per convenzione intitolato Ritratto dei coniugi Arnolfini. Infatti, l’identità dei personaggi ritratti è stata di recente rimessa clamorosamente in discussione con un’ipotesi davvero fantasmagorica avanzata da Jean-Philippe Postel nel saggio Il mistero Arnolfini, per il quale la scena rappresenterebbe l’apparizione allo stesso van Eick della defunta prima moglie, dall’oltretomba resasi visibile nella stanza arredata per il parto imminente della donna sposata in seconde nozze dal pittore.

Jan van Eick, Ritratto dei coniugi Arnolfini, particolare

Jan van Eick, Ritratto dei coniugi Arnolfini, particolare

Tralasciando di entrare nel merito della questione, ciò che qui interessa è sottolineare il significato simbolico decisivo dello specchio alla parete, associato all’iscrizione che vi compare appena al di sopra, “Johannes de Eick fuit hic, 1434”, traducibile con “Jan van Eick fu qui”, ovvero fu qui presente, è stato testimone di ciò che vedete, posso testimoniare come vero ciò che state vedendo perché anch’io c’ero. E, visto che lo specchio non può mentire, simbolo per definizione e per tradizione della verità, raffigurando lo specchio van Eick fa vedere all’osservatore che in corrispondenza del punto di vista, dal quale egli stesso sta vedendo la scena, ci sono testimoni in carne ed ossa; così il punto di vista non è affatto un punto geometrico astratto della costruzione prospettica, ma corrisponde allo sguardo umano in attività.

Da Jan van Eick, copia della Donna alla sua toilette, 1500 ca., Cambridge (Massachusetts), Fogg Art Museum di Harvard

Da Jan van Eick, copia della Donna alla sua toilette, 1500 ca., Cambridge (Massachusetts), Fogg Art Museum di Harvard

Van Eick ribadisce anche in un altro dipinto pervenuto solo in copia, Donna alla sua toilette, quanto rilievo avesse per la sua concezione della pittura la verità ottica dell’immagine riflessa allo specchio, qui raffigurato come una sorta di grande occhio artificiale, ovvero un obiettivo. Nel 1839, quattro secoli dopo il dipinto di van Eick, François Arago annuncia in una seduta dell’Accademia delle scienze di Francia l’invenzione della fotografia, la scrittura della luce, ottenuta attraverso un procedimento tecnologico, all’origine ottico-chimico-fisico, poi divenuto ottico-elettronico e, infine, ottico-elettronico-digitale, che trasforma la luce emanata dalla realtà fisica nella sua immagine speculare, insomma un doppio del reale che appare su uno “specchio dotato di memoria”, definizione del medico e scrittore americano Oliver Wendell Holmess, vissuto nell’Ottocento. Ancora oggi, nel pieno della rivoluzione digitale, crediamo alla fotografia, nonostante la consapevolezza di quanto sia semplice falsificarla o falsificarne il significato, ed è soltanto a questa particolare categoria di immagini che siamo ancora disposti ad attribuire un valore di verità incontrovertibile, di autentica corrispondenza alla realtà, l’unica immagine che può autentificare quello che rappresenta come vero. Ciò accade in virtù di quale specifica prerogativa della fotografia, che ancora la distingue nella sua unicità rispetto a tutti gli altri tipi di immagine prodotte prima e dopo la sua invenzione?

Lo spiega con molta chiarezza David Levi Strauss nel recente saggio Perché crediamo alle immagini fotografiche, con un riferimento primario al volume di Roland Barthes del 1980, La camera chiara. La fotografia è un’emanazione di luce che lascia un’impronta su una matrice fotosensibile, riproducibile in immagini attraverso le quali l’impronta raggiunge lo sguardo dell’osservatore, toccandolo dal suo status temporale dell’essere stato, del ciò è stato. Una frazione di esistenza, strappata dal flusso del suo divenire, che solo e soltanto in quella specifica immagine fotografica si è resa visibile attraverso l’impronta che vi ha lasciato. Barthes definisce come punctum il contenuto emotivo dello specifico sentirci toccati da una fotografia quando la osserviamo, in particolare quando questa rappresenta persone e soprattutto se a queste ci unisce un vincolo affettivo particolare, a cui si riferisce Barthes nel descrivere cosa abbia provato osservando una foto della madre bambina, dopo la sua recente scomparsa.. Al punctum è associata l’altra polarità essenziale e a questa correlata, definita da Barthes come lo studium, ovvero il portato documentativo, informativo e simbolico dell’immagine fotografica in quanto impronta, grazie al quale la fotografia ha svolto e svolge ancora una funzione tutt’altro che ancillare nella scienza, nelle scienze umane, nelle arti visive e nella letteratura.

Gustave Courbet, Atelier del pittore, 1855, Parigi, Museo d’Orsay

Gustave Courbet, Atelier del pittore, 1855, Parigi, Museo d’Orsay

Tra i tanti scrittori che si sono interessati all’invenzione dell fotografia, è d’obbligo citare il caso di Baudelaire, che ne rimarcò tutti i limiti e i vizi d’origine nel saggio Il pubblico moderno e la fotografia, senza però rinunciare ad essere ritratto dal famoso fotografo Nadar, (oltreché dal pittore Gustave Courbet ne L’atelier del pittore, entrambi suoi amici.

Gustave Courbet, Atelier del pittore, particolare con il ritratto di Charles Baudelaire

Gustave Courbet, Atelier del pittore, particolare con il ritratto di Charles Baudelaire

Gaspard-Felix Tournachon, detto Nadar, Charles Baudelaire, 1854 ca

Gaspard-Felix Tournachon, detto Nadar, Charles Baudelaire, 1854 ca.

Messi a confronto, i due ritratti consentono ad ogni osservatore di riconoscere e di sentire il punctum attivato dall’impronta dell’immagine fotografica rispetto all’immagine pittorica, che all’attivazione di altri centri d’attenzione, simbolici e narrativi, deve il nostro apprezzamento. E’ proprio all’improntitudine della fotografia che può essere ricondotta la teoria di Balzac, commentata con ironia immeritata da Nadar nel suo scritto Quando ero fotografo, secondo la quale ogni ripresa fotografica strapperebbe uno spettro, uno strato di esistenza del soggetto, trattenendolo e annettendoselo. In meno di due secoli dalla sua invenzione la fotografia ha prodotto in termini quantitativi un universo iconico di dimensione simbolicamente planetarie; basti considerare che, tralasciando la quantificazione di fotografie ad uso personale e di quelle stampate o riprese su organi d’informazione prima dell’invenzione del web, attualmente e solo su Instagram vengono condivise 3.571.000 fotografie all’ora (dato Eurispes 2021).

Pertanto, l’improntitudine della fotografia è un tratto costitutivo nello sviluppo moderno dell’antropocene, e come tale sarà certo considerato nelle epoche che verranno. Il lungo e affascinante percorso storico della fotografia, dai prodromi della sua invenzione costituiti dai vari tipi di camere ottiche, fino alle sue espressioni contemporanee, è ripercorso da Fabio Mariano, con un taglio specifico dedicato all’arte del costruire, nel suo recente Paesaggi d’architettura. Pubblicato dall’editore Andrea Livi, il volume ripercorre la storia della fotografia d’architettura, congiuntamente ad un catalogo di immagini realizzate dall’autore nel corso della sua cinquantennale attività. Una corposa selezione delle immagini pubblicate è in questi giorni esposta in mostra a Palazzo Campana di Osimo, dove sarà visitabile fino al 23 dicembre.

Nato a Roma e prima ancora di completare gli studi in architettura alla Facoltà di Valle Giulia, con maestri del calibro di Paolo Portoghesi e Ludovico Quaroni, Fabio Mariano ha svolto un’intensa attività di fotografo e operatore della comunicazione visiva. Ha pubblicato reportage e foto d’attualità su periodici e riviste di settore, intrecciando contatti professionali con esperti e fotografi affermati, come Vladimiro Settimelli, Giuseppe Turroni, Piero Berengo Gardin e Caio Mario Carrubba. Subito dopo la laurea gli vengono assegnati i primi incarichi universitari, che sfoceranno nel ruolo di professore ordinario di Restauro architettonico presso l’Università Politecnica delle Marche di Ancona.

Così, la sua attività di fotografo è stata declinata nell’ambito specifico dell’architettura, mettendo in parallelo l’esigenza storico-documentativa, lo studium di Roland Barthes, in molti casi premessa teorica funzionale e indispensabile per gli interventi di restauro, con un’esigenza espressiva fortemente correlata alla prima, tutta concentrata nell’individuare ed esaltare le specifiche forme della spazialità che ogni singola emergenza architettonica rivela come il proprio ritratto; tutt’altro che riferito alla facies, all’apparire in sé concluso, ma piuttosto all’integrazione con il suo contesto, quindi al porsi dell’architettura come figura rispetto ad uno sfondo naturalistico o urbanistico, al contempo caratterizzandolo e facendolo proprio.

Ieoh Ming Pei, Museo del Louvre, atrio, Parigi 1988Ieoh Ming Pei, Museo del Louvre, atrio, Parigi 1988

Così lo spazio si trasforma in un luogo-ambiente, tale per cui il costruito diviene inscindibile dall’abitato, dall’essere uno spazio d’esistenza. Solo in alcune foto, come la Via colonnata di Traiano ad Apamea (Siria), compare la presenza di un’unica figura umana, che sembra richiamare quella caratteristica delle foto riprese alla metà dell’Ottocento da Maxim Du Camp ad Abu Simbel o a Tebe, in cui la figura umana svolgeva una funzione puramente mensoria. L’architettura come luogo, abitato e vissuto, pone in primo piano la dimensione temporale della fotografia, il suo apparirci da un passato, il suo essere un ciò che è stato da cui veniamo toccati. Per noi che le guardiamo, il punctum delle foto di Mariano può essere connesso alla nostra stessa esperienza vissuta di osservatori-visitatori dei beni architettonici rappresentati, alla loro storia conservativa;

Palmyra (Siria), Tetrapylon, II-III sec. d. C.

Palmyra (Siria), Tetrapylon, II-III sec. d. C.

per esempio, veniamo davvero toccati nel vedere il Tetrapylon di Palmyra risalente al II-III sec. d.C, prima che i guerriglieri dell’Isis lo distruggessero nel 2017 insieme ad altre vestigia romane, suggellando il tutto con la tortura e la decapitazione dell’82enne archeologo Khaled Asaad. La ricerca dei luoghi d’architettura ha accompagnato Fabio Mariano in un’esplorazione capillare e sistematica del patrimonio monumentale e paesaggistico della civiltà mediterranea, vicino-orientale ed europea, dalle prime sillabazioni spaziali dei megaliti di Stonehenge e nuragici, alle necropoli etrusche, ai templi egizi e greci, ai teatri della Magna Grecia, fino alle formulazioni canoniche dell’arte medievale, alle invenzioni rinascimentali e barocche, estendendo l’osservazione al progressivo affiorare del modernismo e dei suoi andirivieni temporali, così espliciti nelle forme eclettiche di Gaudì. Fotografando anche oltreoceano, Mariano ha seguito negli Stati Uniti lo svolgimento contemporaneo della tradizione razionalistica e dell’architettura organica europea, fino a confrontarsi con l’attualità progettuale di Richard Meier, Santiago Calatrava e Zaha Hadid.

Le immagini riprodotte nel volume e quelle della mostra di Palazzo Campana sono tutte in bianco e nero, in ossequio ad un canone della fotografia d’architettura che dall’Ottocento si estende fino alla contemporaneità, almeno nel caso di alcuni grandi interpreti come Gabriele Basilico, da Mariano considerato uno dei suoi maestri, insieme a Ezra Stoller. La gamma molto estesa dei grigi, che annulla quasi del tutto la visibilità del bianco, e i neri molto intensi, lasciano trasparire un legame ancora vivo con le stampe calcografiche, che hanno preceduto quelle fotografiche nella pubblicazione dei monumenti e dei siti urbani fino all’Ottocento. Senza dimenticare i chiaroscuri solenni con cui Piranesi avvolgeva nelle sue incisioni le antiche rovine romane, come una patina depositata dal tempo. Inoltre, con la fitta tessitura dei grigi Fabio Mariano mette in luce le trame materiche delle forme spaziali, la corporeità delle pietre che da sempre l’umana arte-artificiale del costruire condivide con la dimensione tellurica.

Benedetto Antelami, Battistero, Parma 1196-1216 Benedetto Antelami, Battistero, Parma 1196-1216

Anche la costruzione prospettica imprime all’immagine una particolare energia emotiva, sia grazie all’uso di ottiche fotografiche grandangolari che forzano la convergenza delle linee di fuga, sia attraverso la scelta del punto di vista, perlopiù angolare e d’infilata, invece che centrale, che invita l’osservatore ad esplorare con lo sguardo lo spazio dell’inquadratura, seguendo le fughe prospettiche a volte vertiginose.

Policleto il Giovane, Teatro, Epidauro 360 a.C. Policleto il Giovane, Teatro, Epidauro 360 a.C.

Notevoli per la tensione spazio-percettiva che raggiungono, le vedute dal basso verso l’alto, nelle quali gli elementi architettonici verticali si proiettano verso un punto all’infinito del cielo.

Francescoo Borromini, San Carlo alle Quattro Fontane, Roma 1641  Francescoo Borromini, San Carlo alle Quattro Fontane, Roma 1641

Esemplare, a riguardo, l’immagine di San Carlo alle Quattro Fontane del Borromini, in cui l’inquadratura imponente e predominante della complessa copertura a cupola sembra far ascendere e risucchiare verso l’alto tutti gli elementi verticali dell’alzato.

Biagio Rossetti, Palazzo dei Diamanti, Ferrara 1493-1503

Biagio Rossetti, Palazzo dei Diamanti, Ferrara 1493-1503

Mentre la fotografia della facciata del Palazzo dei Diamanti di Ferrara rivela il potente paradosso percettivo di un’illusione ottica, che inverte l’orientamento spaziale della veduta da verticale ad orizzontale, cosicché la parete si trasforma in una spianata a texture piramidale, una distopica Giza in miniatura. In questo caso la psicologia della Gestalt riesce a prevalere persino sull’improntitudine fotografica, facendo in modo che il mondo percepito non corrisponda affatto a quello fisico. Ma allora anche la prospettiva è un’illusione ottica? In un certo senso si, o piuttosto è un’illusione dell’ottica, altrimenti perché sarebbe stata inventata la fotografia, l’immagine-impronta? Ma che ne sarà della sua improntitudine, quando il digitale non consentirà più a noi osservatori di accertare se l’immagine, apparentemente fotografica, sia stata prodotta dall’impronta luminosa di un referente reale, o se sia piuttosto una particolare combinazione di pixel elaborata dall’intelligenza artificiale?

Fabio Mariano nel suo studioFabio Mariano nel suo studio

LE STORIE DELL’ARTE, articoli già pubblicati:

Sguardi d’autore sulle Terre in movimento, https://vivere.me/a5SU

Storici dell’arte discutono su Pellegrino Tibaldi, Ancona e le Marche, https://vivere.me/a6w2

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Il Passetto fino a Tokyo. Racconti dal Giappone del designer anconetano Andrea Dichiara, https://vivere.me/brJu

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Questo è un articolo pubblicato il 25-11-2022 alle 17:57 sul giornale del 26 novembre 2022 - 885 letture