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Referendum. Lodolini: "Sfatiamo altri due miti"

7' di lettura

Emanuele Lodolini, deputato PD

Quella approvata in Parlamento è semplicemente una riforma di buon senso che il Paese attendeva da tempo. Coglie le esigenze della società contemporanea e porta a compimento un impegno preso in Parlamento da tutte le forze politiche all'atto della rielezione del Presidente Emerito Giorgio Napolitano, quando parló, ricevendo applausi da parte di tutti, di Legislatura costituente e di ritardi storici e responsabilità storiche della politica tutta.

Ma a dire il vero questa riforma porta a compimento quanto fu sollevato, ben prima di Napolitano, da Meuccio Ruini nell’intervento in Aula in qualità di relatore del testo (22 dicembre 1947) quando, testualmente, affermó: «La seconda parte della Costituzione – ordinamento della Repubblica – ha presentato gravi dif coltà. [...] Non abbiamo risolto con piena soddisfazione tutti i problemi istituzionali. Ad esempio, per la composizione delle due Camere e il loro sistema elettorale...»

Il Referendum stesso si svolge in piena attuazione dell'art 138 della Costituzione.

Tra i sostenitori del No, si sfugge troppo spesso dal merito della riforma. Si personalizza e politicizza la battaglia utilizzando con frequenza alcuni argomenti non veri.

Ne tocco almeno due. Con una premessa. Questa la premessa: i veri poteri forti sono quelli che hanno tenuto l'Italia bloccata negli ultimi 30 anni e che vogliono ancora continuare a tenerla bloccata con un NO.

Primo argomento. Si alza il quorum per eleggere il Presidente della Repubblica

La riforma innova l’articolo 83, non modificandone il senso profondo. La Costituzione riformata, come quella attuale, prevede che per le prime tre votazioni il Presidente debba essere eletto dai 2/3 del Parlamento in seduta comune – dunque 487 voti. Secondo l’attuale disposto, “dopo il terzo scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta”, ovvero la metà più uno. La riforma prevede invece che dal quarto al sesto scrutinio il quorum necessario sia i 3/5 dei voti degli aventi diritto – 438 voti -, dal settimo scrutinio in poi i 3/5 dei votanti effettivi e non dei componenti.

La domanda è: potrebbe il PD, o il M5S o Forza Italia o qualsiasi altro partito eleggersi da solo il Presidente della Repubblica? La risposta è, evidentemente, no. Non apparirebbe logico, difatti, che le opposizioni, per impedire l’elezione di un Presidente a loro non gradito, non partecipino all’elezione, perché permetterebbero, in questo modo sì, di eleggere paradossalmente quel Capo dello Stato al quale intendono opporsi. La riforma, evidentemente, aumenta il quorum per l’elezione del Presidente della Repubblica – fatta eccezione di un alto livello di astensione, improbabile e senza precedenti.

Le critiche, pregne di retorica, mosse al nuovo articolo 83 appaiono sterili, nonché strumentali, anche per un altro motivo: vista la grande importanza di questo appuntamento istituzionale alle elezioni del Presidente partecipa in media il 98,5% degli aventi diritto. Questo vuol dire, in buona sostanza, che intercorrerà una differenza minima e trascurabile tra la maggioranza richiesta dal quarto al sesto scrutinio – i 3/5 dell’assemblea – e quella necessaria dal settimo scrutinio – i 3/5 dei votanti -.

Conti alla mano, dunque, con la Costituzione riformata la maggioranza dovrà necessariamente condividere la scelta con una parte rilevante delle opposizioni. Più di quanto sia accaduto nel passato.


Altro tema. La decretazione di urgenza.

L’articolo 77 contiene la disciplina di uno degli strumenti attraverso cui il Governo assume la responsabilità di esercitare, in casi particolari, la potestà legislativa: il decreto legge. Tale strumento viene considerato “atto avente forza di legge”, nel senso che gli effetti prodotti equivalgono, temporaneamente, agli effetti che si produrrebbero se fosse il Parlamento ad emanare un provvedimento normativo.

La particolarità del decreto legge sta nel fatto che questo debba essere, secondo l’attuale previsione dell’articolo 77, convertito il legge dal Parlamento entro 60 giorni.

Se la disciplina in questione appare abbastanza chiara, soprattutto per quanto riguarda i presupposti per l’adozione di un decreto legge – situazioni di necessità ed urgenza -, numerosi sono stati i casi in cui l’Esecutivo ha abusato della decretazione d’urgenza, contribuendo a rendere il nostro ordinamento pletorico e disordinato. Spesso e volentieri il Governo ha utilizzato impropriamente la decretazione d’urgenza per supplire alla lentezza ed inefficienza del Parlamento, e questo utilizzo frequente, oltre ad esautorare il Parlamento delle proprie prerogative, risulta non essere in linea con quanto previsto in Assemblea Costituente.

Per queste ragioni la riforma interviene per fare chiarezza rispetto ai presupposti per l’adozione di un decreto legge nonché sul contenuto del provvedimento.

Il primo comma rimane sostanzialmente invariato, e stabilisce che “il Governo” non possa “senza delegazione disposta con legge, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria.” Il secondo comma stabilisce che, in casi di necessità ed urgenza, il Governo possa adottare “provvedimenti provvisori con forza di legge” e che debba “il giorno stesso presentarli per la conversione alla Camera dei deputati, anche quando la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”. Quest’ultima previsione si giustifica sulla base del fatto che sia la sola Camera dei deputati a mantenere il rapporto fiduciario con l’Esecutivo. L’ultima parte del secondo comma prevede che “la Camera dei deputati, anche se sciolta, è appositamente convocata e si riunisce entro cinque giorni”.

Il terzo comma prevede il termine entro cui il decreto debba essere convertito in legge – 60 giorni – superato il quale “i decreti perdono efficacia sin dall’inizio”. La riforma stabilisce un differimento del termine di trenta giorni “nei casi in cui il Presidente della Repubblica abbia chiesto, a norma dell’articolo 74, una nuova deliberazione”, ribadendo quanto previsto dal nuovo secondo comma dello stesso articolo 74.

Ma l’innovazione più significativa della riforma è introdotta con quattro nuovi commi. Andiamo con ordine.

Il quarto comma introduce delle limitazioni particolarmente significative all’uso del decreto legge, recependo una risalente giurisprudenza costituzionale, perché questo non diventi abuso. Nello specifico “il Governo, non può, mediante provvedimenti provvisori con forza di legge: disciplinare le materie indicate nell’articolo 72, quinto comma – ossia le materie che richiedono il procedimento normale di approvazione delle leggi in Parlamento -; reiterare disposizioni adottate con decreti non convertiti in legge e regolare i rapporti giuridici sorti sulla base dei medesimi – ossia riproporre decreti non accettati in precedenza -; ripristinare l’efficacia di norme di legge o atti aventi forza di legge che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimi per vizi non attinenti al procedimento”. Il Governo, quindi, non potrà porsi in contrasto con le decisioni della Consulta.

Se il quarto comma mette dei paletti stringenti all’uso della decretazione d’urgenza, il quinto introduce una limitazione ulteriore, afferente al contenuto del decreto. “I decreti” stabilisce l’articolo 77, quinto comma, “recano misure di immediata applicazione e di contenuto specifico, omogeneo e corrispondente al titolo”. I decreti legge dovranno, dunque, presentare una coerenza sistematica tra titolo e contenuto.

Il sesto comma contiene la disciplina dell’esame dei decreti da parte del Senato della Repubblica, che può essere disposto “entro trenta giorni dalla loro presentazione alla Camera dei deputati”. Le proposte di modificazione del decreto, avanzate dal Senato, “possono essere deliberate entro dieci giorni dalla data di trasmissione del disegno di legge di conversione, che deve avvenire non oltre quaranta giorni dalla presentazione”. L’ultimo comma dell’articolo 77 sancisce un’ulteriore regola di coerenza, prevedendo che “nel corso dell’esame di disegni di legge di conversione dei decreti non possono – per questioni di coerenza e correttezza – essere approvate disposizioni estranee all’oggetto o alle finalità del decreto”.

La riforma, attraverso il nuovo disposto dell’articolo 77, in definitiva, consegue due obiettivi importanti: contemperare due esigenze, apparentemente antitetiche, quali efficienza e ponderazione legislativa, ed arginare il fenomeno, deprecabile, dell’abuso della decretazione d’urgenza.



Emanuele Lodolini, deputato PD

Questo è uno spazio elettorale autogestito pubblicato il 17-10-2016 alle 16:57 sul giornale del 18 ottobre 2016 - 10872 letture